Manifesto di una donna nera italiana

Espérance Hakuzwimana Ripanti
People, 2019

“Sono nera, italiana, donna, e scrivo”
Una giovane scrittrice ci spiega cosa vuol dire essere neri in Italia e perché siamo tutti un po’ razzisti.

È il 1994, in Ruanda divampa la guerra. Un gruppo di missionari italiani carica fortunosamente i bambini di un orfanotrofio sull’ultimo aereo diretto in Europa e li conduce a Castenedolo, in provincia di Brescia. L’impresa ha grande risonanza nel Paese e viene riportata anche dai telegiornali dell’epoca. Per un anno e mezzo l’intera provincia bresciana si mobilita: l’asilo locale viene trasformato in un centro di accoglienza improvvisato, aziende e privati offrono cibo, denaro, vestiti, vacanze al mare e gite in piscina. Infine, i volontari adottano tutti i bambini. Sembrerebbe un lieto fine, e invece è l’inizio di un percorso doloroso. Molti dei 41 bambini del 1994 svilupperanno dipendenze e finiranno in prigione, 8 donne su 11 diventeranno ragazze madri. Chi tra loro riuscirà a salvarsi, ma a caro prezzo, è Espèrance Hakuzwimana Ripanti, che in E poi basta, manifesto di una donna nera italiana, tra lettere, frammenti di diario e poesie, racconta la sua storia, il clima d’odio che si è creato negli ultimi anni e spiega come l’attentato di Macerata, evento spartiacque nella coscienza
degli afroitaliani, sia stato sottovalutato dalla maggioranza del Paese.
Espèrance cresce nel bresciano, unica nera della cittadina in cui abita. Fino agli otto anni si crede bianca, non ha amici, se non una bambina immaginaria, Anna, che tenta di proteggerla e di tenere a bada la sua rabbia. Cerca qualcuno che la veda, qualcuno che le somigli e si rifugia nella lettura. Crescendo, il colore della sua pelle la rende di volta in volta invisibile o ipervisibile, ignorata e svalutata o aggredita, insultata, molestata (“o mi si vuole nera e prostituta, nera e povera, nera e bisognosa o mi si vuole nera, acculturata, con la risposta pronta solo secondo i canoni di chi intervista e racconta, sceglie e seleziona; solo secondo i gusti e i desideri degli altri ma mai, mai secondo i miei”).
Ma il razzismo si esplicita anche attraverso una serie di micro-aggressioni
quotidiane: battute, sguardi, domande. Una domanda, in particolare, le viene posta ossessivamente: “Di dove sei? Di dove sei veramente?”. E dietro questo interrogativo, in apparenza banale, c’è una mentalità ben precisa, una certa concezione dello stato e della comunità, il rifiuto del diverso. Il razzismo può celarsi anche dietro le buone intenzioni. È il caso degli stessi genitori della Ripanti, che non la vedono e non la accettano, ma la vorrebbero seppellire sotto il peso di una gratitudine insostenibile, specchio riflesso della loro magnanimità. È il caso di quelli che Ripanti chiama “antirazzisti wannabe”: quelli che si sentono nel giusto ma hanno ancora
molto da imparare, quelli che pretendono di spiegare cosa sia il razzismo a chi lo subisce, quelli che hanno comportamenti incoerenti, gli ipocriti, gli egocentrici, i generosi di professione. È davvero difficile non riconoscersi in almeno uno dei tratti di questi antirazzisti di facciata: da anni accettiamo che il dibattito su razzismo e immigrazione sia affrontato quasi esclusivamente da italiani bianchi, che sia polarizzato sulla dicotomia altruismo/odio. Riguarda sempre e solo noi, quanto siamo accoglienti o quanta paura abbiamo. Il nero, il musulmano, l’immigrato non ha alcuno spazio o autonomia, si deve accontentare di essere una vittima da salvare o un mostro da sconfiggere, non può parlare per sé. Eppure negli anni si è formata una nutrita schiera di autori e intellettuali italiani di origine africana: Igiaba Scego, Aboubakar Soumahoro, Pap Khouma, Amara Lakhous, Antonio Campobasso, Gabriella Ghermandi, Ubax Cristina Ali Farah, Djarah Kan, Antonio Dikele Distefano, e molti altri. Perfino l’Espresso è caduto nella trappola quando a luglio ha messo sulla copertina del numero dedicato alle proteste del movimento Black Lives Matter in Italia una foto che ritraeva esclusivamente manifestanti bianchi, sebbene le piazze fossero state in realtà dominate dalla comunità nera, organizzatrice
delle proteste. Insomma, il razzismo assume le forme più inaspettate e permea la società tutta. Una chiara definizione di cosa sia il razzismo in Italia e una presa di coscienza da parte del Paese del suo passato coloniale aiuterebbero certamente ad affrontare il problema con lucidità ed efficacia. Intanto, in assenza di altri modelli, Ripanti, come tanti altri neri europei, s’ispira al radicalismo americano, riprendendo i concetti di femminismo
intersezionale, appropriazione culturale e razzismo sistemico.
Bruciante e imperfetto come sono spesso le opere prime, E poi basta è
un libro vivo, onesto, personale, che ha il merito di far interrogare e cambiare prospettiva al lettore. Una lettura necessaria per chi vive oggi
in Italia.


Altri articoli che potrebbero interessarti: